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Apiterapia


"If you think you are too small to make a difference, try sleeping with a mosquito"     H.H. the Dalai Lama

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RELAZIONE TRA AGROFARMACI - API - UOMO

Come e perchè le Api muoiono.

Da quando, inizio anni '50 con l'introduzione della cosiddetta "rivoluzione verde" - altro termine fuorviante - è stato sviluppato il concetto di dannosità degli organismi fitoparassiti, in nome dell’incremento produttivo e della difesa delle colture, si è volutamente disconosciuta la funzione bioindicatrice svolta da queste forme di vita. Lo sbilanciamento nella presenza di insetti di una specie non è niente altro che rivelatore delle alterazioni ambientali prodotte dall’uomo.
E come per annullare il loro ruolo di accusatori nei nostri confronti si è dato avvio a quell’incredibile biocidio chimico che ora si rivolta proprio contro di noi, veri bersagli dell’uso improprio dei fitofarmaci.
A prima vista può sfuggire il rapporto causa-effetto fra uso dei fitofarmaci e perdita di diversità biologica, tuttavia basta soffermarsi sulle attuali esigenze produttive per comprendere come l’abuso della chimica ci costringa a ricorrere a palliativi e da surrogati per supplire i vuoti biologici che si sono venuti a creare. Ed in questo le api ci aiutano a capire. L’85% delle piante da cui traiamo nutrimento dipendono dai pronubi e quasi l’80% della produzione agricola italiana in qualche modo beneficia del loro lavoro.
Tuttavia ormai gli impollinatori naturali sono pressoché scomparsi dai nostri agrosistemi specializzati e per far fronte alle malintese esigenze produttive si bruciano sempre più energie fossili non rinnovabili: più chimica, più petrolio, meno vita. Siamo all’apice della speculazione sul dissesto ed ormai la passività del bilancio energetico è proporzionale al deficit biologico: mentre continuiamo a sprecare enormi energie con il risultato di distruggere anche gli organismi utili, siamo anche costretti a spenderne in sovrappiù per riprodurne di sostitutivi nelle bio-fabbriche.
Le api, in questo contesto, diventano uno strumento per misurare la nostra dabbenaggine: le sterminiamo con irresponsabili trattamenti chimici, ma nel contempo le alleviamo perché indispensabili per l’impollinazione. Ormai rappresentano l’unico pronubo realmente disponibile.
Per chi ha a cuore l’ambiente, fare il punto sul rapporto intercorrente fra Api e Fitofarmaci rappresenta dunque un’ulteriore occasione per riflettere sull’opportunità di spostare le tematiche dall’ambito salutista a quello eco-consumerista.
Questa parola, linguisticamente orrenda, individua un modo di consumare e di produrre,eco-compatibile: quindi implicitamente ed inevitabilmente anche salutista, ma non più come scelta individuale, bensì come impegno sociale. In questo modo le api, da esclusivo patrimonio degli apicoltori, diventano di tutti, agricoltori, consumatori e cittadini, e si trasformano in uno strumento per interpretare diversamente il mondo che ci circonda. E così, partendo dall’apporto economico delle api quali impollinatori, di produttori di alimenti e di agenti della conservazione ambientale, si arriva a scoprirle anche come simbolo della cultura della non violenza, unica ed ultima possibilità per riuscire ad immaginare ancora un futuro:“le api operano la trasformazione non distruttiva di polline e nettare, risorse ambientali rinnovabili”. L’ambizione, o l’ardire, di porre un insetto al centro della nostra vita, nasconde la presunzione di far lentamente passare un messaggio di rispetto per ciò che è diverso da noi. L’ape diventa così un soggetto politico, una specie di Spartacus, un simbolo di resistenza e di affrancamento dalle prevaricazioni.
Rispettare le api vuol dunque dire rispettare l’ambiente, quindi tutti gli insetti (pronubi e non), le altre forme di vita animali e vegetali, i sassi, il mare. Ma anche il collega, l’extracomunitario, il vicino di casa, l’handicappato o l’avversario politico. Per queste ragioni diventa importante agire con consapevolezza, quindi anche scegliere se e come effettuare un trattamento chimico, assumendosi le responsabilità derivanti dalle eventuali conseguenze sull’ambiente e sulle altre forme di vita. Ovvio che tale impegno non può, come al solito, essere interamente scaricato sull’ultimo anello della catena: se gli agricoltori appaiono (o sono fatti apparire) come gli esecutori materiali, ben altri sono i mandanti.
Già alla fine dell’800 fu segnalato negli Stati Uniti (1881) il primo caso di avvelenamento di api in seguito all’uso in un frutteto di arseniati di rame. Pochi anni più tardi il problema esplose anche in Italia in coincidenza dell’intensa campagna contro il Dacus oleae, la mosca delle olive, per mezzo di esche avvelenate a base di arseniati. Scriveva a questo proposito nel 1906 Antonio Berlese, uno dei maggiori entomologi italiani: “Perché, oltre alla distruzione od almeno alla ingente ecatombe di api, che avverrà senza dubbio nelle località dove gli olivi saranno trattati col metodo ora ricordato (l’esca avvelenata n.d.r.), si affaccia ancora un grave quesito.[...] Queste larghe irrorazioni venefiche interverranno certo come un coefficiente nuovo e per plaghe molto estese nel complesso dei rapporti fra endofagi e formeospiti, tra le quali molte nocive. Non è possibile misurare a priori l’influenza di un fatto così rilevante, ma è certo che una perturbazione profonda nel vigente equilibrio deve accadere senza dubbio”. Preveggenza? No, solo buon senso, che tuttavia non bastò a mettere sull’avviso di ciò che sarebbe poi accaduto. Si scatenò allora sul periodico agricolo più importante dell’epoca, “Il Coltivatore” di Ottavi, una dura polemica innescata nel 1906 dall’olivicoltore James Auget (LII:367-369), proprietario dell’ex feudo di S. Felice Circeo (così si firmava), e ripresa nel 1907 dall’avvocato Ippolito (LIII: 337-338), della Scuola Agraria di Scandicci (FI). Fra le tante cose emerse in quella diatriba vale la pena ricordare la ragionevolezza e l’attualità di una proposta con cui L’auget nel 1907 poneva fine alla questione (LIII: 586-590):
“.. pensiamo alle nostre api ed a tanti altri utili insetti la cui distruzione sarebbe un disastro per l’agricoltura! Illustri sperimentatori! ponete in vicinanza degli oliveti che trattate delle semplici arnie d’api: studiate gli effetti della vostra miscela sulle medesime e se la riconoscete innocua allora sta bene, ma se fosse micidiale fermatevi: se no farete come l’orso della favola il quale per liberare un dormiente dalla mosca che lo infastidiva gli schiacciò la testa”.

L’apicidio. Con apicidio si intende la distruzione più o meno volontaria delle api che popolano un alveare. Una volta si ricorreva normalmente a questa pratica per togliere il miele dai bugni villici, dagli alveari rustici a favo fisso o dal cavo degli alberi popolati dalle api. Con l’avvento dell’apicoltura razionale a favo mobile questo barbaro ed inutile spreco di energie ha perso ogni ragione di esistere. Tuttavia un’altra causa di apicidio è sorta parallelamente alla nascita dell’apicoltura razionale (fin dalla seconda metà dell’800) in conseguenza del fatto che in agricoltura si è sempre più sviluppata la pratica, oggi ritenuta quasi irrinunciabile, di combattere le fitopatie per mezzo dei prodotti chimici, prima inorganici poi di sintesi.
Purtroppo queste sostanze, per quanto vengano dichiarate attive in modo mirato nei confronti di determinati agenti ritenuti dannosi, generalmente colpiscono un ampio spettro di forme di vita (uomo compreso), alterando quasi sempre in maniera irrimediabile gli equilibri dei sistemi biologici. Le api, fondamentale strumento di produttività agricola per l’opera d’impollinazione delle colture, risultano uno dei più evidenti e frequenti bersagli dei fitofarmaci. Così l’apicidio continua.
L’avvelenamento può interessare i singoli individui adulti ed essere immediatamente evidenziato dall’anomalo rinvenimento di numerose api morte davanti all’al-veare, oppure, con effetti spesso molto dilazionati nel tempo, indurre alterazioni dei processi metabolici a carico dei diversi componenti della colonia in differenti momenti di sviluppo. La maggior parte degli apicidi avvengono per:
1 - trattamenti eseguiti in fioritura;
2 - errori nei dosaggi;
3 - esecuzione del trattamento nel periodo o nelle ore sbagliate;
4 - deriva dei fitofarmaci sotto forma di spray o di polveri su colture in fiore;
5 - contaminazione della vegetazione spontanea in fioritura durante i trattamenti alle colture arboree;
6 - api che vengono direttamente a contatto sulla vegetazione con i fitofarmaci o che vengono accidentalmente a contatto con contenitori, confezioni ed acque di risciacquo delle attrezzature o con altri residui dei trattamenti;
7 - effetto sinergico letale di miscele composte da prodotti singolarmente non dannosi o poco tossici;
8 - raccolta ed immagazzinamento in alveare da parte delle api di polline contaminato da polveri (es.: carbaryl);
9 - raccolta di polveri o di microincapsulati in sostituzione del polline;
10 - contaminazione dell’acqua di cui si approvvigionano le api.

Da quanto sopra si comprende bene come l’apicidio non sia esente da colposità da parte di chi esegue i trattamenti senza aver preso elementari precauzioni, per lo più dettate dal buon senso, ed una responsabilità non indifferente grava su coloro che indicano agli agricoltori il tipo d’intervento e le modalità per eseguirlo.
Sulle stesse confezioni dei fitofarmaci le avvertenze “Non usare in fioritura” o “Dannoso per le api e gli organismi utili” non compaiono sempre con la dovuta evidenza. Anzi, l’essere per lo più confuse con una miriade di altre informazioni di vario genere e di diversa importanza, ne impedisce un’immediata presa d’atto da parte dell’utilizzatore.
In ultimo è da mettere in evidenza che la dichiarazione di fitofarmaci “Non dannosi per le api” è spesso erronea.
Un’ape da sola, così come ogni altro organismo sociale, non ha significato di esistere. Senza entrare nel merito della biologia e dell’eco-etologia dell’alveare, vale la pena ricordare che una famiglia di api deve essere considerata nel suo insieme come un superorganismo.
In analogia ad un organismo superiore, ogni ape può essere assimilata ad una singola cellula del corpo e le diverse caste, al pari degli organi, esplicano funzioni differenti.
Esemplificando, e semplificando, i fuchi e la regina (unici individui fertili) rappresentano le gonadi dell’organismo, mentre le altre attività fisiologiche e metaboliche sono esplicate dalle operaie delle varie classi di età che rivestono ruoli diversi all’interno della colonia: le api ventilatrici e le api acquaiole sovraintendono alla termoregolazione, garantendo una sorta di omeotermia; le bottinatrici alla nutrizione e le nutrici alla secrezione; le spazzine e le necrofore alla escrezione, mentre le ceraiole, con la costruzione dei favi del nido, esplicano una sorta di funzione scheletrica. La covata rappresenta il momento della moltiplicazione cellulare, mentre la sciamatura è il vero e proprio momento di riproduzione moltiplicativa dell’intero organismo.
E’ anche presente un vero e proprio sistema immunitario per cui le api guardiane difendono l’organismo dai pericoli esterni, mentre le raccoglitrici di propoli, grazie alle proprietà antibatteriche di questa sostanza, salvaguardano dai più comuni agenti patogeni. Le note capacità di comunicazione (feromoni, danze interne ed orientamento esterno) indicano infine l’esistenza di una sorta di sistema nervoso che mette la colonia in relazione con il mondo circostante indagato, valutato, memorizzato e descritto dalle esploratrici. Con queste semplificazioni si vuol far comprendere come la sopravvivenza ed il successo di una famiglia dipendano dal mantenimento di complessi equilibri, la cui rottura determina l’indebolimento, spesso irrimediabile, dell’intero organismo. Ad esempio, la morte della covata comporta un rapido invecchiamento della colonia in quanto blocca il processo di rinnovamento degli individui adulti; la perdita della regina ne impedisce lo sviluppo, mentre alla morte delle api adulte segue normalmente quella degli immaturi per mancanza di nutrimento e crollo della termoregolazione.
Proprio la complessità delle interazioni permette alle api di contenere entro limiti accettabili le avversità bioclimatiche, mentre niente può contro le offese derivanti dall’avvelenamento da fitofarmaci e da altri contaminanti ambientali tossici.
Il sintomo di avvelenamento più evidente è dato dal numero eccessivo di api morte di fronte all’alveare. Tuttavia può essere denunziato da molteplici e differenti comportamenti. Taluni fitofarmaci causano nelle api irrequietezza e ne sviluppano l’aggressività, inducendole ad attaccare facilmente l’uomo, oppure, all’opposto, possono far cadere nelle guardiane i più elementari segni di difesa dell’alveare. Si possono anche riscontrare rigurgito del nettare, spesso da associare con avvelenamento da organofosforici e piretrinoidi, o stordimento e paralisi, generalmente da ricondurre a cloroderivati ed organofosforici.
L’avvelenamento può portare modificazioni nelle normali attività, ad esempio alterando il comportamento delle danze che invece di essere eseguite sui favi all’interno dell’alveare vengono eseguite all’esterno sul predellino di volo. L’effetto dei carbammati non è sempre immediatamente percettibile e l’azione può procrastinarsi nel tempo: la famiglia ha un declino progressivo e la risposta è diversa a seconda che siano colpite le adulte o la covata. Nel caso delle adulte la morte può sopraggiungere entro pochi giorni ed un sintomo evidente è dato da un andamento strisciante delle operaie impossibilitate al volo.
Se la covata è nutrita col materiale contaminato appena importato, lo spopolamento avviene nel giro di poche settimane. Qualora invece il polline venga immagazzinato, si avrà una risposta a distanza anche di molti mesi (fino ad un anno ed oltre), allorché verrà consumato. In questo caso si ritrovano larve e pupe morte appena fuori dall’alveare, quando ormai sfugge ogni relazione di causa-effetto. Questi sintomi si rilevano però solo davanti all’alveare, infatti la paralisi alle ali, la perdita di energia, gli spasmi nervosi ed il disorientamento (sintomi di avvelenamento tipici da diserbanti) impediscono alle api il volo e quindi il ritorno in alveare. Tutto ciò, per le bottinatrici, vuol dire morte certa in campo senza che nessuno possa rilevarlo, comportando un lento e progressivo spopolamento dell’alveare fino, nei casi più gravi, alla completa estinzione della colonia. 
L’ingresso in alveare di una sola bottinatrice che col polline o con il nettare introduce sostanze tossiche, causa la morte di numerosi individui. Il fenomeno è quindi tanto più grave quanto maggiore è il numero delle bottinatrici coinvolte. E poiché il numero delle bottinatrici in campo è proporzionale all’intensità delle fioriture, si suole affermare: “Più fiori, più api, più rischi”. Fra gli effetti negativi dilazionati nel tempo, e per questo meno evidenti e quindi anche meno studiati, merita ricordare le alterazioni che colpiscono direttamente o indirettamente la regina e, quale unico elemento fertile, conseguentemente tutta la colonia.
A questo proposito lo sconvolgimento degli equilibri biologici dell’alveare può portare ad un tale stato di agitazione da compromettere la produzione di feromoni da parte della regina che, talvolta, viene per questo sostituita dalle operaie.
La regina stessa può essere oggetto di forme di avvelenamento lento, specie per arseniati o carbaryl: l’ovideposizione può subire drastiche riduzioni fino a giungere alla sterilità (diflubenzuron) e, in caso di gravi avvelenamenti da carbammati, nel giro di un mese si può perdere il 50% delle regine di un apiario. Questo tipo di danno è associato a vari insetticidi come arseniati, carbaryl, dieldrin, malathion eparathion (specie se microincapsulato) e famiglie orfane o prive di regine fertili non sopravvivono all’invernamento. Colonie popolose e forti, essendo caratterizzate da un numero di bottinatrici molto alto, subiscono danni più consistenti delle colonie deboli. Poiché il servizio di impollinazione richiede proprio famiglie forti è evidente che più il materiale soddisfa le esigenze dell’agricoltore, maggiore deve essere la sua cura nel preservarlo in quanto particolarmente sensibile all’uso scorretto dei fitofarmaci.
Diagnosi e comportamento in caso di apicidio. Come anticipato, il primo sintomo di avvelenamento si rileva dall’incremento del numero di api morte nelle immediate vicinanze dell’alveare. Infatti, anche tenendo conto che un gran numero di bottinatrici muore in pieno campo, tuttavia una quota-parte più o meno rilevante riesce sempre a tornare a casa, per cui la continua osservazione di ciò che accade intorno al predellino di volo permette di tenere sotto controllo la situazione. Alcuni principi attivi (p.a.) non sono tossici per le adulte, mentre agiscono sulla covata in tempi differiti (fino a molti mesi se immagazzinati col polline) in quanto la temperatura dell’alveare contribuisce a mantenerne inalterate le caratteristiche di tossicità. Anche in questi casi l’apicidio si può desumere dal rinvenimento fuori dall’alveare di larve o covata morta a vari stadi e dalla progressiva riduzione del nume-ro delle adulte, la cui popolazione non si rinnova. Tuttavia le api non muoiono solo per avvelenamenti ed un eventuale stato patologico può mascherare un apicidio da fitofarmaci: una famiglia già indebolita dalle malattie è maggiormente suscettibile all’azione di un p.a. tossico, anche se la morte viene normalmente associata alla forma morbosa e non all’azione del trattamento. Analogamente può accadere che l’immissione nell’ambiente di un p.a. debolmente tossico o in dosi subletali indebolisca una colonia predisponendola a soccombere per cause patologiche. E’ quindi indispensabile conoscere sempre lo stato sanitario degli alveari per poter formulare diagnosi quanto più affidabili possibile e per non attribuire la morte della colonia a cause errate.
Rilevamento della mortalità. In ogni colonia muoiono giornalmente per cause naturali almeno un migliaio di api al giorno, di cui la maggior parte in pieno campo. Un 10-20% muore però in alveare ed i corpi vengono portati all’esterno da operaie specializzate: le necrofore. Generalmente la maggior parte viene trasportata in volo fino ad alcune decine di metri dall’alveare, mentre un numero minore semplicemente “spazzato” appena fuori dalla porticina. E’ proprio a questi ultimi che si fa riferimento per valutare l’andamento della mortalità: essendo infatti il numero delle necrofore limitato, maggiore è la mortalità, più numerosi sono i cadaveri che si rinvengono subito sotto l’alveare. Per valutare il fenomeno si usano tecniche differenti ma sostanzialmente analoghe per il principio ispiratore: gabbie in rete vengono appese davanti alla porticina dell’alveare o poste a terra subito sotto l’uscita, oppure, molto più semplicemente, si distendono dei teli su cui è facile ritrovare i corpi delle api morte. In via teorica potremmo stilare una scala di questo tipo circa il numero di api morte in alveare al giorno. Tuttavia, come anticipato, in condizioni normali circa l’80-90% delle api muore in pieno campo, mentre di quel rimanete 10-20% a cui si riferisce la precedente scala, si ritrova sotto il predellino di volo solo l’1%. Dall’esperienza infatti sappiamo che le api tendono a tenere pulite anche le immediate vicinanze dell’alveare e che molti organismi (formiche, coleotteri, vespe, rettili, uccelli ed anche mammiferi) si alimentano usualmente delle api morte. Pertanto è necessario prestare molta attenzione all’andamento del fenomeno con più assiduità possibile. Si è ormai stabilito che per procedere alla ricerca di residui di fitofarmaci con accurate analisi chimiche, sono necessarie almeno 500 api. Ne consegue che per convenzione si assume questo numero, derivato da limiti strumentali, come “livello di guardia”, indice di situazioni abnormi. Operativamente, qualora questo limite venga raggiunto in una settimana sommando le vittime di due alveari dello stesso apiario, le api morte dovranno essere subito raccolte ed immediatamente surgelate in attesa di essere inviate ad un laboratorio specializzato. E’ anche importante, prima di fare il prelievo, chiamare il vigile sanitario o altra autorità competente e comunque prelevare le api morte in presenza di testimoni e corredare il tutto con una documentazione fotografica.
Riguardo alle conseguenze sulle api dei trattamenti con fitofarmaci, purtroppo è difficile generalizzare in quanto, a seconda delle differenti fasce climatiche, delle cultivar usate, della struttura del fiore, delle tecniche di coltivazione, si riscontrano effetti diversi.
Di norma vale lo slogan “più fiori, più api, più rischi” che ragionevolmente sintetizza il problema, tuttavia non lo esaurisce in quanto, ad esempio, la presenza di melata, fonte zuccherina molto appetita alle api ed ignorata dagli uomini, è un elemento che merita particolare attenzione.
In primo luogo è spesso prodotta su piante anemofile o non nettarifere. Questo fa sì che al momento dei trattamenti non si prendano le debite precauzioni nei confronti dei pronubi, usualmente messi in relazione solo con la presenza dei fiori. In secondo luogo le melate esplicano un’alta azione adesivante per cui tendono a concentrare il particolato sospeso nell’aria e portato dal vento anche a distanze considerevoli (deriva). Un ulteriore aspetto spesso sottovalutato riguarda il fatto che le api visitano molte anemofile per la raccolta del polline (mais, ulivo, vite) e dalla sua contaminazione con fitofarmaci derivano spesso gli apicidi più gravi.
Comunque conoscere la biologia ed il comportamento delle colonie è il primore quisito per prevenire gli apicidi. La stessa età delle api determina risposte diverse agli stessi p.a.: DDT, dieldrin e carbaryl risultano più dannosi alle api giovani,mentre quelle vecchie appaiono più sensibili a malathion e metyl-parathion. L’attività dell’alveare è ridotta al di sotto dei 10°C ed il volo è possibile solo al disopra di questa temperatura. Di notte il foraggiamento è sospeso; vento, pioggia e cielo coperto limitano in modo più o meno marcato il volo delle bottinatrici.
Al momento del trattamento si deve tener anche conto della dislocazione degli alveari, del periodo di fioritura della coltura e del suo grado di attrattività. Infatti ogni coltura attrae diversamente le api nel corso della giornata: l’erba medica, ad esempio, mantiene la sua capacità attrattiva nell’intero arco del giorno, mentre il melone è per lo più visitato dal mezzo del giorno al primo pomeriggio. I trattamenti durante le ore più calde, normalmente coincidenti con la maggior attività di foraggiamento, sono generalmente i più pericolosi, al contrario trattamenti dopo il tramonto, durante la notte o al mattino presto, riducono proporzionalment eil livello di rischio. Anche la collocazione degli alveari è un elemento molto importante e di norma si può affermare che la pericolosità di un trattamento su una coltura diminuisce con la sua distanza dagli apiari. Alveari posti all’interno dell’area trattata subiscono maggiori perdite rispetto ad una collocazione decentrata, agli angoli o comunque all’esterno della coltura stessa. In genere, in assenza di vento, 400 metri si considerano la distanza minima di rispetto appena sufficiente per contenere i danni, sempreché la coltura trattata non presenti un alto grado di attrattività. Mentre, in assenza di altre fioriture, diventano a rischio alveari dislocati in un raggio di 3-4 chilometri. Ovviamente il trattamento non deve mai essere diretto contro gli alveari.
Le modalità di esecuzione di un trattamento sono funzione della formulazione usata, pertanto ogni valutazione circa la pericolosità nei confronti delle api deve tener conto di molteplici elementi.
In linea di principio si può affermare che più un p.a. è diluito, minore è il rischio e questo, a sua volta, può essere ulteriormente contenuto a seconda della natura del diluente e degli additivi.
Un esempio in proposito lo offrono le sostanze oleose (oli minerali, xilene) che in aggiunta agli spray ne riducono la pericolosità per le api. Ciò sembra avvenire per un supposto effetto repulsivo oppure perché facilitano il rapido assorbimento del p.a. da parte della pianta, riducendo per i pronubi le possibilità di contaminazione. A quanto sopra si aggiungano la dimensione del particolato e lo stato fisico con cui un p.a. è distribuito. In questo caso si evidenziano due fenomeni determinanti per la definizione del livello di rischio: da un lato la possibile deriva del p.a. causata dalle correnti aeree e dalla pressione di applicazione del fitofarmaco, dall’altro l’attitudine delle api a raccogliere ogni sorta di materiali pulverulenti. Un prodotto subisce una deriva tanto maggiore quanto più minuto è il suo stato fisico e quanto maggiori sono la pressione e l’altezza a cui è distribuito. In genere i formulati granulari risultano i meno pericolosi in quanto vengono somministrati direttamente al terreno, non subiscono deriva e la loro dimensione grossolana non induce le api a raccoglierli. Di contro la formulazione in polvere rappresenta forse il maggior veicolo di rischio. La pericolosità degli spray, generalmente intermedia fra le due appena citate, è funzione della dimensione delle particelle e della concentrazione del p.a. Quindi l’uso di spray grossolani è normalmente più rischioso rispetto a quelli finemente micronizzati, all’ULV (ultra basso volume) ed all’aerosol, anche se questi ultimi (~10 µ Ø) possono subire una deriva, al pari delle polveri, di molti chilometri. In questi casi è la rispettiva concentrazione a determinarne la pericolosità, attribuendo il livello minore all’ULV a bassa concentrazione. Ovviamente il rischio aumenta con l’estensione delle aree trattate e per le eventuali ripetizioni dei trattamenti stessi. Inoltre, pur applicando i fitofarmaci con attenzione, si possono talvolta procurare alle api gravi danni a causa della deriva del fitofarmaco su fioriture contigue di piante spontanee e coltivate. A questo proposito merita ricordare che, in generale, i trattamenti aerei presentano più pericoli rispetto a quelli da terra e l’assenza di vento diventa in ogni caso un requisito di sicurezza inderogabile.
Un cenno meritano le esche a base zuccherina che, se addizionate con fenclorfos, triclorfon o diclorvos, presentano un livello di pericolosità molto alto, risultando particolarmente attrattive nei confronti delle api. A questo proposito giova sostituire la frazione zuccherina con melasse, sicuramente meno appetite delle bottinatrici. Si usa anche consigliare l’applicazione dei sistemici, quando possibile, direttamente al terreno e non alle piante. Tuttavia da un lato è noto, anche se poco studiato, il rischio per i pronubi conseguente alla traslocazione del p.a. nel nettare, dall’altro si vanno a colpire molte altre forme di vita presenti nel terreno. Prodotti singolarmente non tossici, per effetti sinergici possono presentare gravi rischi se applicati in miscela. Il fatto è stato evidenziato allorché certi acaricidi a rischio relativamente basso per le api (propargite, dicofol, tetradifon) vengono miscelati con insetticidi o fungicidi, anch’essi singolarmente poco o affatto tossici. E’ anche vero però che l’applicazione contemporanea di più prodotti, oltre ad essere più economica, riduce i rischi per le api rispetto a singole applicazioni ripetute in tempi brevi. In questo caso è infatti possibile prendere una volta per tutte le dovute cautele per eseguire il trattamento. Un obiettivo da tempo ricercato riguarda l’individuazione di molecole repellenti nei confronti delle api da addizionare al fitofarmaco da distribuire. Purtroppo, almeno fino ad oggi, non è stato possibile individuare sostanze che soddisfacessero questa esigenza, quindi l’indicazione riportata in molti manuali di usare sostanze che esplicano un’azione repellente nei confronti delle api appare più come un enunciato di principio che una reale indicazione operativa.
Una particolare attenzione meritano i microincapsulati. Se i formulati granulari appaiono i meno pericolosi per le api, i microincapsulati rappresentano il tipo di formulazione maggiormente dannosa. Ciò è dovuto alla loro dimensione (30-50 µ) dello stesso ordine di misura del polline, contro gli 0,5-1 mm dei granulari. Ciò fa sì che le api li raccolgano frammisti al polline stesso o addirittura in sua vece. L’immagazzinamento in alveare comporta poi una mortalità differita nel tempo, allorché le scorte vengono consumate dalla colonia. Fra l’altro anche p.a. poco tossici alle normali dosi d’uso, se distribuiti come microincapsulati, rappresentano un grave rischio in quanto l’immagazzinamento in alveare ne aumenta la concentrazione. In questo caso i maggiori danni sono a carico della covata, per cui si assiste ad un lento e progressivo spopolamento dell’alveare senza peraltro notare una significativa mortalità di adulti. Da ciò deriva che un p.a. ad alto effetto abbattente ma a basso effetto residuale può essere distribuito con una relativa sicurezza dopo il tramonto anche in formulazioni EC, mentre lo stesso, come microincapsulato, mantiene la sua pericolosità per tempi lunghissimi.
In conclusione un prodotto presenta diverso grado di pericolosità in funzione del tipo di formulazione. All’estremo superiore della scala si situano i particolati fini (microincapsulati e polveri), mentre i minori danni sono da ascrivere alle sostanze granulari. Rispetto all’attribuzione di un p.a. ad una determinata classe di pericolosità (vedi oltre), in prima istanza ci si riferisce sempre alla tossicità del p.a. stesso: l’aldicarb, ad esempio, anche in formulazione granulare, afferisce comunque alla prima classe.
Inoltre va puntualizzato che ogni valutazione di tossicità o di dose letale (DL 50) è sempre riferita all’effetto riscontato sulle api e non ha niente a che vedere con le classi di tossicità in cui sono convenzionalmente classificati i presidi sanitari in relazione alla tossicità per l’uomo e per gli altri animali domestici. Nel nostro caso la pericolosità di un fitofarmaco è legata al suo potere abbattente, alla sua attività residuale o comunque ad effetti riscontrati in campo legati al p.a. ed alla sua formulazione. Si è già detto che per le api le formulazioni in polvere sono più dannose degli spray, le emulsioni concentrate normalmente presentano un pericolo residuale minore delle polveri bagnabili, mentre i granulari sembrano quelli meno tossici in assoluto. Tuttavia non è possibile prevedere con certezza l’effetto tossico di un determinato p.a. ed anche prove comparate in laboratorio ed in campo non permettono di giungere a conclusioni univoche.
Ad esempio, nei test di laboratorio, il carbaryl appare debolmente tossico per le api, ma dall’esperienza di campo si evidenzia un’alta tossicità differita nel tempo e proporzionale alla concentrazione, mentre l’endrin mostra un’alta tossicità in laboratorio che non trova sempre riscontro in campo. Gli arseniati sono estremamente pericolosi per le api adulte, ma se vengono importati in alveare con il polline arrecano gravi danni alla covata anche a sei mesi di distanza, al pari del carbaryl, per questo forse l’insetticida più pericoloso per le api proprio per il lunghissimo effetto residuale. Gli insetticidi di origine vegetale come rotenone e piretrine sono in genere caratterizzati da un effetto residuale relativamente breve, tuttavia si è riscontrato che il fluvalinate importato con il polline in alveare, in seguito a trattamenti al melo, vi permane in tracce almeno per 6 mesi, 3 volte di più che sulle stesse mele (HAOUAR M.,DE COMIS L., REY J., 1990 - Agronomie 2: 133-137).
I cloroderivati hanno comportamenti fra loro difformi. Aldrin, eptacloro, BHC e lindano hanno una lunga attività residuale, mentre DDT, clordano, metossicloro, pertane, endosulfan e endrin, mostrando un’apparente bassa tossicità residuale, da più parti sono ritenuti utilizzabili anche in fioritura purché, come vedremo in seguito, sia impedita alle api la possibilità di bottinare. Tuttavia, poiché se ne ritrovano tracce anche consistenti nella cera dei favi, è da evidenziare una loro attività residuale prolungata dovuta all’immagazzinamento ed all’accumulo in alveare. Anche gli organofosforici hanno comportamenti differenti riguardo agli effetti residuali. Azinfosmetile, diazinone e parathion sono troppo pericolosi per essere usati in vicinanza delle fioriture, mentre TEPP, triclorfon, etion, tetraclorvonphos e fosalone, avendo un breve effetto residuale, possono essere applicati anche in fioritura purché si abbia l’accortezza di impedire alle api di bottinare.
I prodotti diradanti vengono normalmente considerati a bassa pericolosità se usati con le dovute cautele. Comunque è forse più corretto dire che i loro effetti sulla fauna utile sono ancora pressoché sconosciuti. Diversi prodotti sistemici (acefate, dimetoato, metamidofos, metomil, monocroto-fos, ecc,) vengono traslocati all’interno della pianta, ma è stata anche evidenziata la loro pericolosità quando vengono assunti dalle api con il nettare che può risultare contaminato.
Il dimetoato, altamente tossico in spray, presenta forse meno rischi quando viene applicato direttamente al tronco. Il demeton metile, normalmente letale, può essere usato con una certa sicurezza purché sia impedito il volo alle api.
E’ tutt’ora oggetto di discussione il fatto che i piretrinoidi mostrano in laboratorio un’alta tossicità acuta, mentre in campo non sembrano rappresentare un evidente pericolo. Ciò è stato attribuito ad una loro apparente azione repellente, tuttavia alcuni studi hanno individuato una risposta da parte delle api riferibile più ad un’alterazione neurofisiologica che ad un’azione repellente vera e propria. Infatti, in seguito ad avvelenamenti in campo da piretrinoidi, le api tendono a rigurgitare il contenuto del proventricolo ed assumono un atteggiamento marcatamente aggressivo. Inoltre, prove di laboratorio, hanno mostrato una netta alterazione nella percezione di odori e di messaggi feromonici. In sintesi si tende a considerare l’azione di questi p.a. come una forma di avvelenamento a dosi subletali (quali quelle abitualmente usate in agricoltura) e, per spiegare l’azione repulsiva, si è ipotizzata l’alterazione delle comunicazioni fra gli individui delle colonie (SMITH T.A., STATTON G.W.,1986 - Res. rew., 97: 93-120; MAMOOD A.N., WALLER G.D., 1990 - Physiol. ento-mol, 15: 55-60).
E’ indubbio comunque che se i piretrinoidi non causano danni evidenti alle api, tuttavia ne riducono drasticamente l’attività per un arco di tempo variabile da poche ore a molti giorni. Poiché la loro tossicità residuale in campo è ritenuta molto breve, è quindi opportuno utilizzarli solo nei momenti in cui il volo è inattivo in modo da non compromettere l’impollinazione delle colture.
Gli acaricidi tetradifon, chinometionato e ciexatin sono stati indicati come utilizzabili anche in fioritura senza arrecare gravi danni alle api, tuttavia, come binapacryle fenazaflor, presenterebbero la minima pericolosità quando vengono distribuiti al mattino presto o al tramonto. Per quanto riguarda il dicofol questa precauzione non sembra però sufficiente a garantire la salute dei pronubi, così come è importante segnalare nuovamente che, se distribuiti in miscela con insetticidi o fungicidi anche non tossici, si manifesta talora un effetto sinergico letale per le api.
Il diclorvos è un prodotto ad alta pericolosità, tanto che la formulazione in strisce non deve mai essere usata in presenza di materiali apistici in quanto la cera assorbe e ritiene facilmente i residui di questo insetticida. A questo proposito gravi danni sono stati segnalati in seguito all’uso di favi immagazzinati in ambienti in cui erano state utilizzate strisce di Vapona per la loro conservazione. In generale i fungicidi non sono ritenuti particolarmente tossici per le api, pur se talvolta si sono osservate sensibili mortalità in seguito a trattamenti eseguiti con prodotti a base di zolfo o in miscela con altre molecole. E qui, una volta di più, si riaffaccia l’esigenza di approfondire il temuto “effetto sinergico”. In ultimo merita prestare attenzione ai cosiddetti regolatori di crescita (IGR) il cui uso, spesso mirato, interferisce però con numerose altre forme biologiche. Valga l’esempio del fenoxicarb, apparentemente innocuo per le api adulte, comporta danni per la covata tali da ripercuotersi successivamente anche nelle successive fasi di crescita e quindi da danneggiare tutti gli stadi della colonia (Marletto et al., 1992 -Apicolt. mod., 83: 209-218).
Inoltre tali prodotti procurano gravi danni anche ad altre forme dell’entomofauna utile, contribuendo ad un’ulteriore semplificazione degli ecosistemi. A questo proposito ogni valutazione su questa categoria di prodotti dovrà essere subordinata ad un attento e lungo studio circa gli effetti sulle diverse forme di vita presenti nell’ambiente in cui vengono immessi.

Una particolare attenzione deve essere dedicata ai diserbanti. Nonostante i ripetuti allarmi ed i molteplici avvertimenti si continua a sottovalutare la loro pericolosità per i pronubi, tanto che la maggior parte degli erbicidi (2,4 D e suoi composti) sono ancora abitualmente considerati non pericolosi per le api. E’ bene però ricordare che i clorofenossiacetici, oltre a recare danni ai pronubi, sono stati segnalati per l’azione mutagena (INFOR VIE SAINE, 1979: 25-27).
Amitrol, atrazina e simazina risultano in genere moderatamente tossici, ma si sono registrati gravi casi di apicidio in seguito a trattamenti in fioritura dovuti alla loro azione residuale. Applicazioni spray di MCPA sono invece sempre pericolosissime. Se è indispensabile usare in fioritura il 2,4 D o prodotti consimili, DNOC ed endothal, scegliere sempre la formulazione meno pericolosa ed effettuare i trattamenti sempre nel tardo pomeriggio o dopo il tramonto.
La convinzione che i diserbanti non siano dannosi deriva dal fatto che essi vengono per lo più usati negli stadi precoci di apparizione delle cosiddette infestanti, quando ancora non sono visitate dalle api. Spesso tuttavia, specie nel caso di diserbo delle arboree, i trattamenti avvengono senza tener conto dello stadio di sviluppo e della fenologia florale delle spontanee, contaminando così i fiori sia direttamente che per deriva. Un’altra ragione di apparente innocuità dei diserbanti deriva dal fatto che i maggiori danni sono a carico della covata, valutazione spesso trascurata e pertanto fenomeno difficilmente rilevato (clorofenossiacetici, dalapom sodium, cloramben, EPTC). Da notare che i fenossiderivati (2,4-D, ecc) oltre ad inibire la secrezione nettarifera ed indurre un danno indiretto per la scomparsa delle fonti di cibo, possono anche compromettere la capacità di volo delle api, presumibilmente per la contaminazione del nettare.
I danni maggiori prodotti dai diserbanti sono comunque da ascrivere alla distruzione della vegetazione spontanea che offre nutrimento e riparo a molti organismi. Ed è proprio in conseguenza alla scomparsa di pascoli naturali che i pronubi spesso si indirizzano su colture normalmente poco visitate e per questo particolarmente a rischio in quanto oggetto di trattamenti che usualmente non tengono conto della loro salvaguardia.

La temperatura è il principale fattore esterno che influenza la tossicità di un fitofarmaco. Generalmente l’alta temperatura, favorendo una più rapida degradazione delle molecole, esalta la tossicità diretta dei p.a., mentre ne riduce l’effetto residuale così come sembra ridurre la già limitata efficacia delle sostanze repellenti. L’aumento delle temperature è normalmente legato ad una maggiore durata del giorno, ma ciò comporta anche una maggior attività delle api, esponendo così un maggior numero di individui al rischio e riducendo nel contempo il numero di ore utili per eseguire i trattamenti. Come l’aumento della temperatura esalta la tossicità acuta di un p.a. mentre ne abbrevia quella residuale, un suo abbassamento ne prolunga anche di venti volte la tossicità di campo. Ed anche l’umidità relativa, a parità di temperatura, può influire sulle variazioni di pericolosità dei residui: ad esempio l’aridità raddoppia l’effetto residuale del metomil.
Proprio all’effetto temperatura, o all’effetto congiunto temperatura-umidità, sono in gran parte da ascrivere le differenti valutazioni di tossicità a cui sono giunti i vari studi. Infatti, ricerche analoghe per quanto riguarda sia il p.a. sia la coltura a cui era applicato, hanno spesso condotto a risultati differenti: disulfoton, malathion, mevin-fos, tepp e forate, in clima caldo esplicano anche un’azione asfissiante non riscontrata in climi freddi. Il mevinfos, sempre in climi caldi, perde tanto rapidamente il suo effetto residuale che può essere distribuito anche in fioritura, purché le api non siano in volo. Talvolta però può accadere l’inverso per cui l’endosulfan vede esaltata la tossicità proprio in presenza di un aumento di temperatura. Normalmente però è verificato che l’abbassamento di temperatura esalta l’effettore siduale (carbofuran, clorpirifos, DDT, carbaryl, mevinfos, acefate) e ciò è particolarmente evidente per il fluvalinate, unico fra i piretrinoidi di sintesi ad apparire privo di potere abbattente nei confronti delle api. Tuttavia, in presenza di temperature relativamente basse, incrementa la sua tossicità del 30%. Valga quindi come regola generale che: non devono mai essere effettuati trattamenti in vista di un sensibile abbassamento di temperatura. Un altro aspetto da tener presente riguarda il fatto che l’attrattività delle fioriture varia nelle diverse ore della giornata ed è massima nei momenti di maggior emissione del nettare. Purtroppo mancano studi approfonditi e sistematici su questo aspetto, peraltro assai variabile per ogni coltura essendo funzione della fascia climatica e delle condizioni edafiche. Perciò è sempre e comunque opportuno evitare di eseguire i trattamenti in fioritura e, anche nel caso in cui si usi un prodotto non ritenuto dannoso, evitare sempre le ore di maggior attività dei pronubi.

Il problema della tossicità dei fitofarmaci nei confronti delle api e degli altri insetti utili nasce praticamente con l’uso dei fitofarmaci stessi così come negli ultimi anni si parla sempre con maggior frequenza dell’ape come insetto test per il rilevamento dell’inquinamento agricolo. Tuttavia è un storia vecchia. Già alla fine dell’800 furono evidenti i danni da fitofarmaci per le api e per gli altri organismi utili, allorché negli USA (1881) fu segnalato il primo caso di apicidio inseguito ad irrorazioni su pero con arseniati di rame (Bovey P., 1947). Come anticipato, anche in Italia, ai primi del ‘900 era scoppiata un’aspra polemica fra tecnici agrari, apicoltori ed entomologi circa l’uso delle esche avvelenate (miscela De Cillis a base di arseniati) messe a punto per combattere il Dacus (la mosca delle olive) ma risultate causa di molteplici apicidi. Solo più tardi però, fra gli anni 50 e 60, in pieno sviluppo dell’agricoltura chimica, Johansen iniziò negli USA lo studio sistematico dei p.a. del commercio e dette avvio ad un criterio di classificazione in funzione della loro tossicità nei confronti delle api. Da allora molti altri ricercatori di vari paesi hanno contribuito a sviluppare questa tematica, purtroppo senza quell’uniformità metodologica, indispensabile per rendere possibile un’univoca comparazione dei risultati conseguiti.
In Italia si deve ricordare che questo tipo di lavoro è stato “inventato” dal nulla dal Prof. Vidano e tenacemente sviluppato con la collaborazione della Prof.ssa Arzone. Oggi il “Gruppo Protezione dell’Ape”, facente capo al Prof. Celli ma sostenuto fattivamente dal Dr. Porrini, sviluppa continuamente ipotesi di lavoro attraverso verifiche sperimentali e di campo.
Come anticipato, vengono applicati differenti criteri di valutazione: tossicità acuta e tossicità residuale del p.a. nei confronti delle api adulte e/o della covata, valutazioni in laboratorio o/e in campo, pericolosità della formulazione e delle modalità di distribuzione, effetti dilazionati nel tempo. Tuttavia, poiché la tossicità delle diverse sostanze dipende anche da parametri biotici (competizione delle fioriture, flusso nettarifero, attività delle api) ed abiotici (temperatura, vento, umidità relativa), rimane realmente difficile giungere ad una valutazione oggettiva. Dal 1996 è recepita ed operativa anche in Italia la direttiva europea che prevede specifici test da effettuarsi sugli organismi utili in vista dell’immissione sul mercato di nuovi presidi fitosanitari. Varie organizzazioni, a questo proposito, hanno elaborato schemi di valutazione della pericolosità dei fitofarmaci ed anche in Italia è stata da tempo avviata una sperimentazione specifica. In questo ambito sono state condotte ricerche mirate culminate con un modello di protocollo operativo e la proposta di nuovi criteri per la valutazione del danno (Sabatini A.G. et al., 1994; Porrini et al., 1996). In questo contesto però non si può tenere conto delle nuove garanzie offerte per il futuro in quanto non è prevista alcuna revisione dei prodotti già in commercio. Inoltre gli studi oggi disponibili, ovviamente, non possono tener conto di quanto in atto. Pertanto la presente revisione si riferisce al materiale “storico” che è stato prodotto in contesti e con criteri d’indagine non omogenei, mantenendo comunque una validità in quanto riguarda la maggior parte dei fitofarmaci oggi in uso. A questo proposito, in conseguenza delle modalità d’indagine, sono stati anche applicati differenti criteri per definire le classi di pericolosità. Gli Autori di scuola anglosassone in passato si sono generalmente riferiti a 4 classi. All’opposto altri Autori (fra cui alcuni francesi), proprio per la variabilità dei risultati, si sono limitati ad individuare due sole classi, dividendo le sostanze in pericolose e non pericolose per le api. Più recentemente Atkins e Johansen hanno separatamente sviluppato ulteriori criteri di valutazione basati sulla DL 50 e la RT 25, ricavati sperimentalmente. Mentre la DL 50 concerne la dose letale di p.a. che induce una mortalità del 50% negli individui testati, la RT 25 riguarda il tempo di decadimento del p.a. necessario per ridurre la mortalità al 25%.Dalla valutazione congiunta dei due parametri deriva il giudizio finale di pericolosità di un determinato fitofarmaco. Se ciò permette una previsionalità di tipo tabellare, tuttavia non tiene conto dei molteplici elementi (biotici ed abiotici) che incidono sulla reale pericolosità né su effetti diversi dalla mortalità stessa.
Infatti DL 50 ed RT 25, riferendosi a dosi letali, misurano l’effettiva mortalità degli individui, mentre molte altre conseguenze negative sono state riscontrate a dosi subletali e sicuramente l’approfondimento degli studi potrà riservare ulteriori sorprese. Le dosi subletali non comportano effetti evidenti e facilmente misurabili, come alterazioni fisiologiche e comportamentali dei singoli individui o alterazioni funzionali delle colonie. Ad esempio è stato riscontrato che il parathion incide sull’attività di foraggiamento sia facendo diminuire la velocità di volo che alterando la capacità di scegliere i momenti più opportuni per bottinare. Malformazioni negli adulti sono state messe in relazione a carbaryl e dimetoato, inoltre malathion e diazionone sembrano abbreviare la vita media degli adulti. Il metossicloro sembra indurre una riduzione sensibile sia nei consumi alimentari sia nell’allevamento della covata, fra l’altro malathion e metossicloro sono stati spesso correlati ad invasioni delle tarme della cera, tipico elemento spia di uno stato di indebolimento delle colonie.
Ai piretrinoidi sono attribuite sia l’alterazione delle capacità di apprendimento che della memoria. In particolare per questi ultimi, come per molte altre molecole, si parla di un effetto “repellente”. Tuttavia sarebbe più corretto affermare che dopo la loro distribuzione si assiste ad una rarefazione di visite. Infatti, alla luce dei più recenti approfondimenti, è possibile collegare questo comportamento a forme di subavvelenamento non misurabili con la DL 50 né con la RT 25, ma invece riconducibili a fenomeni vari, dall’alterazione delle comunicazioni in alveare alla morte delle esploratrici, elementi che impediscono comunque il reclutamento di altre bottinatrici. In conseguenza anche di ciò, oggi si tende a raggruppare i diversi p.a. in 3 classi. Come si vede è scomparso il concetto di non tossicità in quanto l’esperienza ha dimostrato l’impossibilità di escludere un qualunque tipo di conseguenze, indipendentemente dalle condizioni ambientali o dallo stadio di sviluppo dell’ape.
Nella presente revisione ci si è riferiti a quest’ultimo tipo di scala, analizzando criticamente i valori desunti da 33 diverse fonti bibliografiche e riferendosi alla pericolosità dei singoli p.a. indipendentemente dalla formulazione e dalle eventuali miscele (vedi Bibliografia consultata).
Si sono riportate anche le valutazioni relative a p.a. non ammessi nel nostro paese o la cui autorizzazione è stata revocata o sospesa (indicati nelle tabelle con *) in quanto ritenuti di una certa importanza (es.: arseniati, DDT, ecc). Infatti taluni sono ancora reperibili come presidi medico chirurgici, oppure oggetto di mercato “clandestino”. Per l’attribuzione alle 3 classi, si è generalmente proceduto mediando le valutazioni formulate dai diversi Autori ed arrotondando alla classe di maggior pericolosità.
Tuttavia, quando si sono trovate precise indicazioni, indipendentemente dal valore medio ottenuto, si è privilegiato il dato relativo alla classe di maggior tossicità. Ciò è più frequentemente avvenuto per i diserbanti, abitualmente ritenuti non pericolosi, ma risultati invece dai pochi studi specifici avere gravi ripercussioni sulla biologia dell’alveare e nell’ambiente. Per alcuni p.a., in quanto di recente registrazione, è stata messa in evidenza l’incertezza dell’attribuzione (n) o l’accertata pericolosità per altri organismi utili (R). In particolare, quest’ultimo elemento, in presenza di indicazioni bibliografiche contrastanti, ha comportato l’inserimento del p.a. nella classe di maggior pericolosità fra quelle indicate. Per quanto riguarda i 437 p.a. considerati, solo 383 sono commercializzati in Italia da oltre un quinquennio (periodo da ritenere troppo esiguo per escludere ricadute negative) e del 26% di questi ultimi non se ne conoscono ancora gli effetti sui pronubi. Note utili per contenere i danni in caso di rischio evidente di contaminazione degli apiari da parte di irrorazioni di fitofarmaci in un dato periodo. Se non è possibile trasferire l'apiario, effettuare la clausura. Mettere un melario vuoto ad ogni alveare e garantire un’abbondante riserva di acqua con nutritori a tasca, spugne intrise di acqua od opportune modifiche agli stessi melari. Sostituire al coprifavo una griglia e tenere sollevato il tetto per favorire l’aerazione. Chiudere anche la porticina con una griglia. Coprire accuratamente ogni alveare con un telone con i bordi ben fissati a terra e, in caso di temperature molto alte, bagnarlo. Per queste operazioni si prestano ottimamente gli alveari con fondo a rete. In caso che sia inserito il cassetto sottostante, toglierlo per favorire la circolazione dell’aria. La colonia, così prigioniera, non subirà danni dalle sostanze tossiche anche se queste verranno a contatto con l’alveare. Le api stesse, con la ventilazione, manterranno attivo un sistema di circolazione dell’aria e, grazie all’abbondante riserva di acqua disponibile, conterranno gli aumenti di temperatura in alveare. Nel caso in cui sia disponibile un impianto d’irrigazione è possibile creare una situazione di intensa e prolungata piovosità artificiale simulando condizioni di clausura naturali. Tuttavia, durante le ore di luce, per maggior sicurezza sarà comunque indispensabile chiudere con una grata la porticina dell’alveare. Dopo il trattamento,una volta liberate le api, sarà opportuno inserire le trappole a polline in modo da ridurne al massimo l’importazione per qualche giorno e, nel contempo, fornire adeguati sostituti.
In caso di non poter usare questi accorgimenti, non chiudere mai gli alveari: il surriscaldamento porta alla morte della famiglia. Inoltre i favi stessi possono cedere fino a sciogliersi, risultando così inservibili.
L’ape, questo insetto sociale così evoluto, è importantissimo per una molteplicità di ragioni. Oltre che produrre miele le cui proprietà sono ben note a tutti le api sono un cardine per la conservazione della biodiversità, che costituisce il punto di forza di ogni specie vivente, senza la quale si creerebbero organismi deboli e incapaci di sopravvivere. E allora è forse il caso di porre più attenzione all’ambiente in cui viviamo, perché non si può spezzare il connubio che è sempre esistito tra uomo e terra senza subirne poi le disastrose conseguenze. E' compito delle Istituzioni risolvere il problema, e dei politici indirizzarne il percorso, facendo tesoro della regola: "Qualora non si possa valutare a priori l'eventuale danno, cioè che in ASSENZA DI CERTEZZA SCIENTIFICA SULLA INNOCUITA' di un prodotto o di una tecnologia, vale la regola del PRINCIPIO DI PRECAUZIONE secondo cui non si deve consentire la produzione, l'impiego o la diffusione nell'ambiente di tali prodotti dell'ingegno umano".
 

Si ringrazia la fonte
- API E FITOFARMACI: UNA CONVIVENZA POSSIBILE, di Marco Accorti - Istituto Sperimentale di Zoologia Agraria Cascine del Riccio, Firenze.


 

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